La psicopatologia e la psicoterapia secondo un continuum
Il modello di intervento focale integrato
Intendo affrontare un argomento di interesse clinico nell’intervento psicoterapeutico, che parta dalla mia esperienza in un contesto di lavoro quale la comunità terapeutica ove il disagio, la sofferenza ed il disturbo psicopatologico si esprimono in maniera evidente, drammatica, a volte persino tragica, con evidenti complicazioni disfunzionali, non solo per il paziente, ma spesso per la famiglia, il contesto di origine, i servizi di salute mentale che se ne occupano e gli operatori di Ct.
Il grado di compromissione della persona è ad un livello così elevato, di alto grado di resistenza al cambiamento, di “cronicità” che ha fatto, spesso negli ultimi anni, parlare di area deficitaria della personalità, che richiede interventi di sostegno alla area dell’io deficitaria come interventi di protesi piuttosto che di interventi terapeutici. Spesso alimentando la distorsione e la frustrazione dell’intervento sentito come circoscritto, delimitato e di scarso cambiamento. Forse contribuendo a negare l’importanza di un intervento di riconoscimento dei bisogni del paziente grave:
di dipendenza,
di sicurezza,
di negazione dello stato di bisogno,
della necessità di allearsi e sostenere tali bisogni con tecniche di intervento supportive, di protesi, focalizzando l’intervento sulle necessità e non sul superfluo,
Anche da un punto di vista di riconoscimento economico e di immagine di sé degli operatori che se ne occupano. Ma questo tema non sarà affrontato e sarà lasciato al suo destino di marginalità.
Ciò che mi interessa e preme di affrontare riguarda la possibilità che un intervento di tipo misto supportivo / espressivo sia possibile non solo nel campo dell’area deficitaria ma in alcuni casi sia possibili utilizzarla e sia stata utilizzata anche nell’intervento dell’area del conflitto.
L’origine di tale termine è alla radice ed è uno dei piloni centrali della letteratura psicoanalitica, che pone diverse istanze strutture e difese tra loro in conflitto come fondamento di una soluzione di compromesso che si esprime nel sintomo del paziente, spesso alla base di una domanda di cambiamento proprio per la sofferenza che esso arreca alla persona.
Nel designare i termini in conflitto Freud è passato attraverso tre ipotesi:
la prima formulazione del conflitto riguarda il dualismo tra principio di piacere e principio di realtà,
la seconda oppone le pulsioni sessuali e pulsioni di autoconservazione o dell’Io,
la terza formulazione riconduce ogni conflitto ad un dualismo tra Eros e Thanatos, pulsioni di vita o di morte.
La risoluzione del conflitto nella terminologia e prassi analitica ha subito diverse evoluzioni ma rimane centrale il riconoscimento di istanze, meccanismi e pulsioni che nel profondo dell’individuo agiscono come fattori che bloccano l’evoluzione e portano alla ripetizione di meccanismi difensivi coattivi, di fatto già utilizzati nel passato, ma non più adattivi alle richieste di evoluzione del ciclo vitale dell’individuo.
Nella pratica analitica e nelle sue evoluzioni il terapeuta ha mantenuto una posizione neutrale, di distanza, anche visiva nella terapia, per lasciare più spazio, più possibilità di una emersione di contenuti inconsci non influenzati dal terapeuta stesso. Se nel corso degli anni questa posizione è evoluta ad una immancabile relazione di reciprocità tra due inconsci in collegamento, quello del paziente e del terapeuta, tra una indubbia influenza dello stile, della tecnica, della teoria che sorregge il terapeuta stesso, rimane nella pratica psicodinamica di molte scuole e teorie un atteggiamento di neutralità, di specchio, di distanza, che favorisca l’emersione di contenuti inconsci, che permettano all’individuo ed all’analista di meglio comprendere le difese utilizzate, i conflitti tra le diverse strutture ed istanze psichiche che concorrono alla ripetizione e riedizione di meccanismi disadattivi o non evoluti.
Sappiamo come in condizione di particolare stress emotivi spesso ricorriamo a meccanismi regressivi e spesso disadattivi ma che hanno una funzione di mantenere l’integrità nella struttura dell’individuo. Proprio laddove le difese arcaiche, primarie, regressive sono più utilizzate tanto meno sono utilizzati nella pratica strumenti interpretativi che potrebbero danneggiare o spaventare il paziente, tanto più ci si trova con un paziente “evoluto” o “nevrotico” ci si avvale di essi.
Il termine supportivo o di “protesi rimanda a pratiche assistenziali, di reverie, di cura che prevedono una vicinanza, una vicarietà, l’accettazione di dipendenze, tecniche di sostegno, che sottendono anche il contatto o una maggiore vicinanza col paziente, in cui spesso ci si può sostituire a lui, fare per, con, o al paziente. Questo soprattutto laddove il paziente è più primario, meno evoluto, bisognoso di protezione esterna, di sicurezza che il paziente spesso nega violentemente o si esprime attraverso la negazione dello stato di bisogno, e quindi più dipendente. Tutto ciò ha spesso comportato una distinzione netta tra le due pratiche di intervento quasi ad una dicotomia e di impossibilità di integrazione tra le due. Si sostiene che un intervento supportivo, o con pratiche di tipo cognitivo comportamentale, limitino l’espressione del transfert e veicolino più gli oggetti interni del terapeuta o della teoria di riferimento. Non facilitano e non lasciano spazio alle proiezioni inconsce del paziente, o che una volta sostenuta tale posizione di sostegno e supporto non si possa recuperare una posizione di distanza, o che questo influenza la direzione della terapia, come se il terapeuta sappia già in quale direzione si debba andare, con un idea quindi preconfezionata di direzione da prendere. L’analisi classica o psicoanalisi lascia invece che tutto quanto quello che succede nella stanza di analisi, sia dovuto alla libera espressione di emozioni, racconti, riferimenti, silenzi, che, così come nel gioco del bambino o nei sogni, abbiano la possibilità di associarsi in nuove costruzioni e associazioni, che permettano l’utilizzo di strumenti analitici classici come la chiarificazione, la confrontazione, e l’interpretazione, come ponti di collegamento tra istanze, pulsioni, relazioni oggettuali oggetti interni / oggetti esterni. La dimensione dell’intervento si limita solo nell’area espressiva. Questo ha anche una origine dalla prima psicoanalisi, in cui l’elemento transferale o le proiezioni sul terapeuta, siano possibili solo nell’aera nevrotica della struttura di personalità, in base alla direzione della libido che nella psicosi è “introversa” o “sottratta” cioè non si trasferisce sugli oggetti.
L’indubbia veridicità che invece anche nell’area psicotica si possono vedere sviluppare degli elementi transferali e controtrasferali ha ridato centralità e valore di indagine ad entrambi. Nella riedizioni degli elementi transferali inconsci, “nevrosi di transfert” che Freud definisce come una nevrosi artificiale che nasce nella relazione transferale in cui si evidenziano le nevrosi infantili, nella relazione analitica assumono un significato terapeutico:
“Se il paziente è tanto compiacente da rispettare le condizioni indispensabili per la continuazione stessa del trattamento, ci riesce in genere di dare a tutti i sintomi della malattia un nuovo significato in base alla traslazione, facendo in modo che la normale nevrosi sia sostituita da una “nevrosi di traslazione” dalla quale il paziente può essere guarito mediante il lavoro terapeutico.
La traslazione crea così una provincia intermedia fra la malattia e la vita, attraverso la quale è possibile il passaggio dalla prima alla seconda. Il nuovo stato ha assunto su di sé tutti i caratteri della malattia, ma costituisce una malattia artificiale completamente accessibile ai nostri attacchi” .
L’evoluzione delle tecniche psicodinamiche ha portato Alexander e French nel 1946 ha parlare di Esperienza Emotiva Correttiva (EEC) e differenza tra ora ed allora, il cambiamento deriva dall’opportunità che il paziente ha di far fronte ripetute volte, in circostanze più favorevoli, a quelle situazioni emotive che erano precedentemente intollerabili e di gestirle e viverle in modo diverso dalle precedenti. Il transfert (ed il diverso controtransfert vissuto nella relazione terapeutica) e l’interpretazione di trasfert, l’esperienza emotiva correttiva e l’interpretazione delle differenze tra ora ed allora, divengono in questo utilizzo momenti della stessa strategia, che a seconda del tipo di trattamento psicodinamico e delle diverse fasi hanno diversa prevalenza.
La terapia focale, e qui vorrei arrivare ad una integrazione tra le diverse discipline psicodinamiche come affrontato dal modello di psicoterapia focale integrata, è indicata per pazienti per i quali non è necessaria la strutturazione e l’analisi sistematica della nevrosi di trasfert. Il concetto di esperienza emotiva correttiva è problematico perché oggetto di fraintendimento. E’ stato frainteso come modalità per gratificare i bisogni narcisistici del paziente di essere accudito, nutrito, amato, una forma di gratificazione sostitutiva, cioè al posto di favorire la risoluzione, oppure come una sorta di riparazione per una mancanza od un deficit. Il fraintendimento è quindi relativo ad un accudimento concreto rispetto ad un contenimento simbolico ed ad un’esperienza di sicurezza all’interno dello spazio analitico, che opera come un “ambiente facilitante” , nella quale esperienze passate rivissute nel rapporto terapeutico sono rielaborate secondo modalità più mature. “..sono importanti i concetti di madre sufficientemente buona e di holding di Winnicot, di oggetto-Sé di Kohut, di oggetto trasformazionale di Bollas, che si riferiscono a condizioni che l’esperienza emotiva correttiva presuppone perché si instauri una relazione terapeutica utilizzabile nel processo di cambiamento”. (Gislon 2005 pp. 174 op.cit).
Nella terapia con pazienti nell’area del deficit, di tipo supportivo, l’utilizzo ed il reperimento di un focus problematico e di intervento, come l’individuazione del bisogno essenziale del paziente, si rende necessario poiché spazza via il superfluo dall’essenziale. Il rivivere ed attualizzare nel proscenio della CTR, sugli operatori, di spezzoni trasferali inconsci, la diversa natura controstrasferale della relazione con questi ultimi, se pensata e non agita, permette effettivamente la possibilità di un vissuto di E.E.C. che spiazza e ridefinisce confini e relazioni oggettuali interne / esterne. Questo non rimanda ad un cambiamento strutturale, ma ad una diversa ridefinizioni dei confini ed accettazione dei limiti, ad una compensazione stomatologica, ad una area meno pubblica e più privata della follia. Questa necessità di reperire ed affrontare un focus problematico nasce dall’evidenza clinica e dalla necessità di spazzar via il superfluo dall’essenziale nel riconoscimenti dei bisogni specifici del paziente grave, data sia l’urgenza e la tragicità della crisi e la necessità di poter costruire una alleanza terapeutica stabile e proficua basata sull’individuazione ed eventuale evoluzione dei bisogni.
I bisogni del paziente grave saranno perlopiù orientati alla area della sicurezza / dipendenza, i bisogni del paziente nevrotico si orienteranno più sull’area del conflitto e della relazione con gli oggetti di bisogno, ma alla base dell’intervento focale assume significato il riconoscimento dei bisogni adattativi ed evolutivi del paziente nel ciclo vitale, ed alle crisi come momento potenzialmente evolutivo e di crescita.
Altra componente legata all’intervento focale riguarda il tempo assegnato al trattamento che è “razionato” in cui si tiene presente come raggiungere il massimo beneficio con il minimo investimento in termini di tempo ed economico. Per questo si giunge a parlare di psicoterapia psicodinamica breve, che hanno come base il modello teorico psicoanalitico, la interpretativo espressiva finalizzata a favorire l’insight rispetto ai conflitti inconsci e quella di sostegno finalizzata a favorire lo sviluppo delle funzioni dell’Io, anche se per Lacan “L’Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. E’ il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo.
Il modello focale integrato implica la integrazione di diversi modelli teorici di riferimento spesso vissuti e sentiti in aperta antitesi se non in conflitto nei presupposti teorici, metodologici ed a volte epistemologici. Ma come ci insegnano altre discipline esiste un bisogno di integrazione e necessità di connettere non solo diversi assunti ma a volte discipline distanti come possibilità di crescita ed evoluzione.
Un modello integrativo derivato, dal modello evolutivo (Gould, Colarusso, Cummings), dalla psicopatologia evolutiva, costituisce il contesto generale all’interno del quale vengono utilizzati i modelli psicoanalitico e cognitivo comportamentale. Concetto fondamentale è che lo sviluppo ha luogo durante tutta l’esistenza senza la mediazione terapeutica, per cui l’intervento va impostato con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il corso naturale. Attuare interventi volti a modificare fattori che ostacolano il processo evolutivo, utilizzando gli strumenti della psicoanalisi per individuare se esistono dinamiche conflittuali inconsce che impediscono nell’attualità la possibilità di affrontare esperienze e bisogni diversi da quelli del passato, la presenza di potenzialità evolutive e di resistenze al cambiamento, affrontabili in tempi relativamente brevi. La prospettiva evolutiva descrive il conflitto come agente di cambiamento attraverso il dialogo, determinato da nuove esigenze evolutive che richiedono nuove risposte, promuove un processo che è dialettico. Il conflitto agisce da intermediario ed è considerato caratteristico del processo di sviluppo naturale, è quindi un conflitto evolutivo. Quando questo conflitto evolutivo non riesce a trovare una risposta per la presenza di un conflitto intrapsichico o interpersonale con componenti inconsce, le indicazioni sono per un trattamento psicoanalitico in cui le tecniche principali sono coma abbiamo visto l’interpretazione, e l’esperienza emotiva correttiva. La prima come abbiamo visto è un ponte che fornisce informazioni e lega due elementi prima distanti e non connessi, dando la possibilità di un perché esista una difficoltà a completare un compito evolutivo, portando alla consapevolezza dimensioni prima separate, mettere in relazione aspetti del qui ed ora con elementi di là ed allora, che esercitano ancora un influenza e che ostacolano possibilità evolutive. L’individuo può instaurare un dialogo, tra sistemi di idee, emozioni e comportamenti che derivano dal passato e quelli esistenti che derivano dall’attualità, che permette una conciliazione in una diversa organizzazione dei significati dell’esperienza. La terapia cognitiva ha nella sua finalità e nelle sua modalità tecniche di intervento quello di sviluppare una capacità meta cognitiva, di osservazione e riflessione sui propri processi di pensiero, di schemi, che ne comprende una verifica ed una modificazione. Le tecniche sono finalizzate a identificare e modificare gli aspetti cognitivi che compromettono il funzionamento psicologico.
La finalità è quella di rendere il paziente consapevole di come i suoi schemi e le correlate opinioni e pensieri automatici disfunzionali basati sull’esperienza passata continuino ad essere attivi. Anche in questo caso si instaura un rapporto ed un dialogo tra prospettive derivate dal passato e dall’attualità, che permette lo sviluppo di modalità più adeguate. L’integrazione dei due modelli è indicata secondo questo modello focale quando il paziente necessita, per risolvere un conflitto evolutivo, di due tipi di intervento, uno rivolto ad cambiamento cognitivo ed uno rivolto alla risoluzione di un conflitto intrapsichico inconscio. Possono avvenire contemporaneamente od in successione.
I processi di cambiamento caratteristici del processo di sviluppo normale che costituiscono le finalità terapeutiche essenziali comuni a questi modelli possono essere raggruppate in tre aree: il cambiamento delle modalità di auto inganno definita da Elster come l’insieme delle modalità di esclusione delle informazioni, il passaggio dalla passività all’attività, la resilienza che indica la capacità di esito adattativo nonostante circostanze difficili e negative quindi un esito positivo di fronte a condizioni avverse, ed è il risultato dell’interazione tra fattori di rischio e protettivi. Porta l’attenzione sulle modalità che il paziente è in grado di utilizzare per uscire dall’autoinganno, per avviare un dialogo interno tra prospettive differenti, su quali fattori individuali e ambientali possono favorire il passaggio dalla passività all’attività, e l’accettazione del limite, per aumentare il senso di padronanza sul proprio mondo interno e sulla realtà esterna.
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