L’osservazione trigenerazionale nell’ambito di una psicoterapia dinamica breve
La famiglia d’origine del terapeuta.
L’osservazione della famiglia trigenerazionale nasce in un preciso quadro teorico di riferimento che ha i suoi capisaldi nella teoria sistemico relazionale sviluppatesi intorno alla metà del secolo scorso con riferimenti sia alle teoria dei sistemi sia sugli assunti della cosi detta “seconda cibernetica” cioè il passaggio epistemologico nella definizione di realtà. Da una realtà esterna oggettiva indipendente dall’osservatore (prima), ad un modello complesso, in cui il sistema, cioè l’insieme degli elementi che si trovano in interazione nella realtà osservabile è in interazione dinamica, oggetto e soggetto, conoscente e conosciuto fanno parte dello stesso sistema (dopo). Gli autori che operavano soprattutto con pazienti psicotici, insoddisfatti da un approccio classico e duale della terapia, hanno ampliato alla famiglia d’origine del paziente il loro intervento terapeutico intuendone le potenzialità evolutive, spinti dall’influenza emozionale, psicologica che i familiari avevano sul paziente. Il paradigma principe della terapia familiare era che per cambiare il “paziente designato” occorreva modificare il suo contesto familiare. Ampliare l’unità di osservazione dalla famiglia nucleare (genitori-figli) a quella trigenerazionale (nonni-genitori-figli) è stato l’ulteriore passo nell’intervento terapeutico. Questo ha permesso il di svelarsi di una serie di modelli relazionali tra le generazioni, miti, aspettative che esercitano un’influenza sul sistema osservato. L’osservatore si trova dunque a poter fare “ipotesi trigenerazionali” che siano in grado di legare le tre generazioni in un progetto evolutivo inscritto nel ciclo vitale (Saccu C., De Rysky M. 1983). È attraverso una visione trigenerazionale che si possono meglio comprendere non solo le dinamiche relazionali ma anche le conflittualità individuali (Andolfi et Altri “la famiglia trigenerazionale”). La frustrazione del passaggio da una generazione all’altra di elementi affettivi, psicologici e funzionali, che caratterizzano reciprocamente la conferma dell’identità dell’altro, è ciò che contribuisce al blocco transgenerazionale, fonte di numerosi conflitti. Questo blocco è ciò che toglie funzionalità ad un sistema, impedendogli di avanzare nel processo della vita. Nell’armonia intergenerazionale, nella quale ognuno compie il ruolo assegnato dal suo momento evolutivo, sta il segreto della funzionalità di un sistema familiare (Luigi Onnis/Walther Galluzzo,
La Nuova Italia Scientifica, 1994). È importante che l’osservatore abbia raggiunto un buon grado d’individuazione perché ciò gli consente di sapere dominare i suoi movimenti di entrata e di uscita dal sistema osservato, implica quindi la capacità i legarsi e di separarsi dalla famiglia attraverso continue oscillazioni del grado di partecipazione. Le difficoltà relazionali nelle famiglie d’origine degli stessi terapeuti, che sono, spesso, alla base della loro scelta vocazionale, fanno sì che ci sia anche una reticenza e un timore, a volte razionalizzato, di immergersi troppo profondamente nelle complessità dei sistemi familiari disfunzionali. Al doppio messaggio della famiglia d’origine del terapeuta: “istruisciti per poter curare le nostre difficoltà psicologiche, anche se con noi non potrai”, il doppio messaggio delle famiglie dei pazienti: “alleviateci dalle nostre sofferenze, ma senza cambiarci”. Alla sfida esistenziale del primo doppio messaggio si sovrappone la sfida tecnica del secondo (idem). In questo passo citato si individuano alcuni elementi critici individuati nelle difficoltà relazionali del terapeuta stesso nelle famiglie d’origine come potenziale sia motivazionale nella scelta di divenire psicoterapeuta sia un possibile “blocco” nell’immergersi troppo profondamente nelle dinamiche famigliari che ci fornisce la possibilità di un ponte interpretativo alla base di una scelta di una psicoterapia psicodinamica breve come approccio teorico. Il terapeuta si sta difendendo? Nella mia esperienza con gli psicotici dentro una CTR e che mi vede tra i fondatori, ho inevitabilmente sperimentato la necessità di allargare i confini oltre “la malattia, il disturbo ascritto e confinato nella soggettività del “paziente designato” soprattutto nella disperata ricerca di risorse che si possano attivare sia internamente sia esternamente ed a quelle che inevitabilmente si oppongono con forti resistenze, alle quali il terapeuta / agente di cambiamento risponderà secondo le proprie immagini interne che ricorrono nei suoi stili, miti familiari. L’alta emotività espressa che caratterizza alcuni incontri allargati alla “mappa dei poteri” (paziente, famiglia, servizio inviante), i doppi legami, messaggi paradossali, il bisogno di richiedere un intervento esterno vissuto come un tribunale giudicante a cui appellarsi vicendevolmente per attribuirsi o scaricarsi colpe e richiedere clemenza, risuonano a confondere il terapeuta/agente. Sottrarsi a questi richiami è tanto più difficile laddove si porti già un idea precostituita e non elaborata di quale sia il modello “migliore” e inconsciamente patteggiare per quello (con inevitabili triangolazioni). La necessità di uscire da questa trappola diviene fondante nell’intervento della “funzione di intermediario” (Zapparoli G.C., La follia e l’intermediario. Dialogos ed.) nel trattamento degli stati gravi, poiché i bisogni del paziente sono spesso negati dal paziente stesso e non riconosciuti se non ostacolati dagli altri attori/agenti. “La funzione di intermediario” tra i diversi attori nella mappa dei poteri intorno al paziente (paziente-famiglia-servizio) necessita di un inevitabile coinvolgimento e partecipazione degli stessi al progetto terapeutico ma questo non diviene una terapia famigliare, seppure, come la teoria dei sistemi dimostra, un cambiamento di uno degli elementi del sistema implica necessariamente una modificazione di altri membri del sistema e la ricerca di una nuova omeostasi.
Certo alcuni interrogativi della teoria sistemico relazionale nell’intervento terapeutico individuale rimangono invariati soprattutto nei casi gravi (psicosi / borderline) il trattamento di questi implica anche laddove arrivino al terapeuta breve (cosa rara ma non impossibile), nel reperimento del focus di intervento (distinguendo in questo senso da focus problematico poiché potrebbe prevedere un allargamento oltre il paziente), una attenzione sia ai conflitti interni/esterni al paziente sia alle sue modalità relazionali conflittuali nei suoi micro /macro sistemi di interazione che, inevitabilmente, risuoneranno all’interno del terapeuta con i suoi. Tantomeno conosciuti ed elaborati tanto più pericolosamente confusivi e fuorvianti si confronteranno non due persone ma sei generazioni. Laddove diventino invece nel terapeuta internamente, nel paziente chiarificati nel mit-dasein col terapeuta, momenti di esperienza correttiva emotiva potenzialmente evolutivi per entrambi.
Nessuna risposta.